Dalla proroga fiscale al vero tema: l’Italia sotto una dittatura burocratica invisibile
Nel dibattito pubblico si continua a discutere di proroghe tecniche, come quella che riguarda la scadenza del 31 ottobre 2025 per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi e del Modello 770. È una richiesta che, nel mondo professionale, non nasce da comodità, ma da una necessità reale: evitare errori determinati dalla compressione dei tempi, soprattutto in un anno segnato da un sovraccarico normativo senza precedenti.
Il 2025 è stato infatti caratterizzato, oltre che dalla campagna dichiarativa ordinaria, da tre fronti emergenziali contemporanei:
l’introduzione del concordato preventivo biennale, che ha richiesto analisi complesse e personalizzate;
la ripresa massiva delle cartelle esattoriali, pignoramenti e fermi amministrativi, notificati in molti casi prima dell’annunciata rottamazione 2026;
la continua stratificazione di adempimenti fiscali e comunicativi, spesso accompagnati da interpretazioni non chiare, circolari tardive o modifiche in corsa.
Non si tratta di circostanze straordinarie. Bensì di un modello strutturale.
L’Italia vive oggi una forma evoluta di controllo non visibile né dichiarato: una dittatura burocratico-fiscale.
Non opera attraverso la forza, ma attraverso la perenne incertezza normativa, la minaccia sanzionatoria, la paura di sbagliare anche in buona fede.
Non sottrae libertà manifestamente, ma consuma lentamente energie economiche, intellettuali, psicologiche, fino a rendere impossibile ogni iniziativa autonoma.
Il risultato è evidente:
le grandi aziende quotate in Borsa prosperano, sostenute da capitali, grandi infrastrutture finanziarie e un sistema bancario che ne facilita l’espansione.
Al contrario, un giovane che voglia intraprendere un’attività propria spesso non riesce a ottenere un finanziamento di 10.000 euro senza garanzie familiari. Non per mancanza di idee, ma per architettura sistemica.
Dove sta allora la vera emergenza democratica?
Nel fatto che povertà e burocrazia, lavorando insieme, paralizzano la partecipazione civica.
Chi non ha tempo, chi vive nell’ansia fiscale, chi spende le proprie giornate tra scadenze e adempimenti, non ha energie per informarsi, analizzare, elaborare pensiero politico.
È un sistema che non reprime, ma addormenta.
Che non censura, ma distrare.
Ecco perché la proroga del 31 ottobre non è solo un fatto tecnico-contabile.
È il sintomo di una malattia più profonda: uno Stato che pretende compliance totale senza concedere certezza del diritto, e che governa spesso più sulla difficoltà di adempiere che sulla chiarezza delle regole.
Il punto non è prorogare una data.
È riconoscere che l’Italia, senza un vero piano di semplificazione strutturale, resterà imprigionata in una forma di dittatura burocratica silenziosa, dove la libertà è formalmente intatta, ma nella pratica residuale.
La prima rivoluzione non è ideologica.
È culturale: tornare a informarsi fuori dalla televisione, leggere fonti indipendenti, comprendere dove finiscono realmente i soldi pubblici.
Perché un popolo informato è un popolo ingovernabile dalla paura.
E solo allora — e non prima — sarà possibile costruire un’Italia libera davvero
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